Ieri ho trovato Cristina in lacrime. L'ho intravista mentre cercava ovviamente di nascondersi alla vista dei più. In una banale strada che avrebbe ptuto essere qualsiasi strada e in un momento che avrebbe potuto essere un qualsiasi momento. Scossa da un pianto che aveva, del silenzio e nell'umido delle lacrime, l'essenza principale. Spalle ferme, non sussulti o singhiozzi. Un pianto per sè, esclusivo.
Per tutto questo ho volutamente cercato di non incontrare il suo sguardo. In una sorta di voluto comportamento che avesse più rispetto di Lei che non debolezza verso una mia naturale, affettuosa, curiosità personale. Non volevo cedere al desiderio gentile di sapere. Tenevo di più alla Sua riservatezza.
Nonostante questo, in un sottile gioco di sguardi obliqui e di opportine distrazioni verso altre cose, ho peccato di ingenuità nell'essere eccessivamente visibile o vicino, rendendo ovvio/inevitabile l'incontro di due occhi. Per questo, non io, bensì tu, cara Cristina, ti sei fatta avanti. Verosimilmente o forse bisognosa di condividere un qualcosa che stava sollecitando la tua anima e il tuo bello spirito,
"Ciao, Alessandro" e un veloce e leggero gesto del polso e della bella, sottile mano. Un guanto rosso che sporgeva da una manica viola tra il glicine e l'intenso di una prugna matura. Un gesto e una voce che, pur nella confusione di una strada di Milano, si erano resi visibili e udibilissimi. Ho finto di essere distratto e di avere bisogno di un'altro avviso. La tua voce rinnovata.
"Alessandro?!", e mi sono voltato. Ho rivisto, questa volta in modo diretto, le tue labbra rosse come i guanti e la tua acconciatura nera e spigliata come Louise Brooks. La rapidità del tuo sguardo contornata di rimmel e di eyeliner. Il tuo sguardo, profondo, indagatore e con una sfumatura sempre cos' seria, quasi triste, pur nella gioia di un'espressione spiritosa.
Questo ho sempre ammirato e forse amato di te. Questo e la tua sensibilità, anche se, negli anni, oppressa dalla banalità e dalla grossolanità della vita, ho visto avanzare una greve oggettività di pensiero. Più concreta che sognatrice. Più ragioniera che filosofa. Più operatrice che visionaria. Ed io, che vivo cercando di mantenere il bambino dentro che vive di sogni e illusioni e desideri e ingenuità!
Ecco, ti avevo vista piangere di un pianto privato, non pubblico pur in una strada affollata dove la gente scorre senza vedere ciò che gli scivola intorno. Eppure, scivolano donne e uomini, esseri viventi e vita! Ecco, tu avevi pianto per te stessa. Nessuno si era accorto. Ed ora, aspettavo una tua nuova parola. Come avresti reagito al mio incontro? Come avrei dovuto comportarmi?
Un abbraccio, con uno slancio forse maggiore del dovuto. Indicatore di un trasporto emotivo importante. Certo, avrei voluto baciarti sulle labbra. Ma non con il desiderio di un innamorato o con la passione di un sentimento. Con il piacere di ritrovare qualcosa di me stesso. In fondo, considero la tua bellezza come una sorta di esternazione, di oggettivizzazione di un mio vedere la bellezza, la sensibilità e l'eleganza unite insieme in una realtà tangibile.
il tuo profumo di donna. Delicato ma intenso e indimenticabile. perfino il profumo del tuo rossetto entrava nel mio respiro e nella mia mente. Non ci siamo allontanati di molto dall'abbraccio iniziale, socievole e formale. Stretti come in una sorta di comune intesa di quanto era successo poco prima. Consapevoli entrambi di un segreto che si era consumato tra le lacrime.
Non ho saputo e non ho voluto aspettare una tua seconda parola, sapendo che quelle formali avrebbero rotto la magia di una intesa spontanea ed irripetibile. "cos'è successo, perché piangevi? Mia cara." In queste due ultime parole avevo impresso tutta la mia volontà di darti la rassicurazione che volevo esserti di aiuto, che la mia curiosità era ... un nulla rispetto a te.
"Vedi, Alessandro, a volte si piange per qualcosa che nessun'altro considererebbe importante. Non ci sono problemi di salute o di cuore o di lavoro o di natira economica. Piango perché sto perdendo me stessa. Sfilacciata in un continuo trascorrere dei giorni senza alcuna memoria di me e di quanto mi accade, vivo e sento. Piango per il vuoto."
"Lo so, mia cara e bellissima amica. Lo so anche io e bene. Un mese è trascorso senza che fermassi sulla carta i miei pensieri su quanto accade e su quanto vivo. Perso in un tempo, in una dimensione che è solo pratica risposta alle sollecitazioni e, per questo, assenza di vita. E' un mese che non vivo. Direi che sono morto da un mese se non considerassi che la morte è l'assenza di respiro e battito."
Ti avevo risposto e continuavamo a rimanere stretti, pur essendoci allontanati per poterci guardare negli occhi. "Quello che noi stiamo avvertendo è il lancinante dolore del non esistere guardando alla vita in un modo consapevole che ci permetta di assumere giudizi sulle cose e sui fatti e di crescere. Ma quanto tempo si vive così? Il mosaico dell'esistenza si è temporaneamente interrotto."
"E di questo, si soffre!" mi hai risposto e non avevo visto la lacrima in se stessa ma solo la linea del maquillage che si spandeva leggermente, perdendo quella linearità che lo rendeva perfetto. "E di questo si soffre. Di questo soffriamo. Dell'essere macchine che forniscono risposte prima ancora di formulare pensieri, guidizi, opinioni e di crescere nell'esperienza e nel sapere assaporare le cose."
La mia risposta era stata immediata, semplice, lineare e forse banale. Il profondo del tuo sguardo mi aveva fermato. "Dimmi, allora, come fare? Tu cosa fai?" mi avevi detto. Ora eravamo di fronte, luno all'altra, in modo normale. La giusta distanza. "Cosa faccio, amica mia? Mia cara, cosa faccio è dimenticarmi di me stesso per gli stessi lunghi momenti che mi stai dicendo."
"Fino a quando la cosa non mi è insopportabile! Fino a quando sento il bisogno di dire che sono me stesso e che devo riprendere la vita come è giusto che sia! A volte, come nell'ultimo mese, rimango muto e improduttivo. nel senso che non scrivo. Non dico nulla. Ho solo pensato e mi sono solo ripromesso di farlo, credendo di non avere avuto stimoli così forti per farlo!"
"Ecco, come il Diavolo insinua nella mente del credente che i peccati da lui commessi sono così gravi da non potere più meritare alcun perdono da parte di Dio - e questo serve solo per fargli credere di essersi allontanato troppo dal Signore - ecco che la realtà ti fa credere di essere stata così tanto priva di significato da non averti dato alcuno stimolo di riflessione e di crescita."
"E invece, così non è! Se non sentiamo è perché siamo sordi. Se crediamo che non ci siano stimoli, è perché ci si sta facendo dominare dal pensiero comune che vuole solo vederci come soldatini che fanno, agiscono ma senza pensiero autonomo e senza desiderio e senza giudizio." E mi accorgevo che queste parole erano risuonate tante volte nella mia mente in questo periodo.
Parole che erano servite e servivano a mantenere l'identità di me stesso in un frangente dove il senso materiale e l'oggettività del vivere sembravano avere preso il sopravvento sulla spiritualità e sulla visione dell'essenza del vivere. Mia cara amica, ti ho riabbracciato e mi è venuto spontaneo dirti "Tu sai che noi possiamo sempre contare l'uno sull'altro e quensto garantisce la nostra identità."
"E la nostra stupenda sensibilità! Anche se questo ci fa soffrire quando pensiamo di perdere il nostro modo umile e partecipe e consapevole di vivere l'esistenza." Aspettavo un altro abbraccio e mi sono accorto di avere desiderato un altro bacio. Ma ti sei allontanata con un saluto della tua mano e del tuo guanto rosso. La gente si è richiusa alle tue spalle impedendomi di vederti andare via.
Sparita in un soffio.
Soundtrack: Tubular Bells by the Brooklyn Organ Synth Orchestra