Eravamo in una seduta fotografica. Scattavi, misuravi, provavi, davi ordini e ti agitavi. La luce non era esattamente quella che volevi, che ti aspettavi ed eri insofferente. La modella si muoveva con una sequenza di pose e gesti che francamente trovavo abbastanza banali e ti chiesi il giudizio. "E' così, per questa seduta, il gesto deve essere standard. Non Le sto chiedendo nulla di più del vestire bene la serie di costumi che dobbiamo riprendere per il catalogo." Come per dirmi che non si trattava di arte ma solo di mestiere.
Mi sembrava di essere in un fumetto di Crepax con Valentina dietro la sempiterna Hasselblad ed i suoi fantasmagorici obiettivi dai nomi affascinanti. Distagon, Exagon, Planar, Xenar, Tessar, Hektar, e chissà cosa d'altro. Io sono quindi Philip Rembrant? Non lo so ma il dialogo segue gli schemi di Guido Crepax. Intellettuali, onirici, disimpegnati e impegnati nel contempo.
La modella saltava qua e là. Alzava le braccia, girava il volto, si fletteva leggermente in avanti e accennava passi o una lieve danza. Magra, decisamente magra e necessariamente bella e molto alta. Ricordavo i miei passi da appassionato di fotografia. Da quella "sociale" a quella di moda. Figlio degli anni settanta non avevo potuto sfuggire le tematiche umane.
Fotografie delle fabbriche. Scatti sui disadattati, alla ricerca dell'attimo espressivo del colmo della miseria o dell'aberranza civile. I senzatetto, i barboni, gli zingari, i bambini con la mano tesa per chiedere l'elemosina e così via.
Cortei di scioperi, manifestazioni di studenti e conflitti con le Forze dell'Ordine. Sempre tesi alla ricerca dello scatto drammatico. Non che ci aspettasse o si desiderasse il dramma ma la ricerca era nei confronti del "problematico".
Ricordavo una mattina, molto presto, una spedizione alla Bicocca. Tra le rovine abbandonate delle fabbriche. Lungo i binari dei treni. In pieno inverno. Con il freddo e l'umidità e i vapori che salivano dai tombini o dai vagoni dei treni.
E le masse di lavoratori delle prime ore del mattino. Ah, le masse! E tutto, rigorosamente ripreso in bianco e nero. Perché il bianco e nero era la giusta ambientazione della ripresa "sociale". E meglio se la pellicola era rapida e sgranata. Sensibile e meno dettagliata. Ilford HP400 da trattare in fase di sviluppo con acidi che ne accentuassero il contrasto e la "grana".
Ecco, così si poteva esaltare il tetro, il dramma, il triste, il dimesso, il disperato, il degradato, il fastidioso, lo scomodo. E poi, dentro nella camera oscura allestita come si poteva per completare i capolavori da esporre in qualche mostra. Non esisteva alcun interesse economico ma solo quello di sfornare un documento sociale.
Stereotipi su stereotipi. Ma terribilmente attratti dal fango. Un vivere fegatoso il malessere del momento politico e intellettuale con le radio che ti sparavano interviste dalle scuole e dalle fabbriche in lotta. Okkupazione.
Poi, dalla "nostalgie de la boue", ecco l'evoluzione verso la fotografia di moda. Verso il ritratto del bello, del gesto affascinante ed evanescente che trasmette piacere e sogno. Ora sono qua, dietro di te che lavori. Che scatti e che invii secchi ordini e domande perentorie. Parli di luci e di calore della luce. Di esposizione, di esposimetri e di sequenze. Di diaframmi e di teli riflettenti.
E tu scatti foto su foto. La temperatura è piacevolissima. Hai il winder che lavora in sequenza. Noi avevamo la levetta della ricarica e scattavamo una foto per volta con la Ilford HP400 e faceva freddo.
Soundtrack: Keith Jarret - Autumn Leaves (Tokyo 96)
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