Sunday, September 6, 2015

Il treno e il sogno

Bessie MacNicol - Autumn
Avevo preso il treno che mi avrebbe fatto rientrare a casa. Una breve trasferta di poco più di 24 ore per un incontro che aveva del piacevole, del doveristico e del proficuo. Intendiamoci, il doveristico era la lezione che avevo dovuto tenere all'Università mentre proficuo era stato l'incontro con altri docenti per il futuro sviluppo di un progetto di ricerca.

Il piacevole era il senso stesso della trasferta, il luogo (Pisa) e il modo (in treno). Avrei potuto dedicare a me stesso il gusto di guardare dal finestrino il paesaggio che scorreva a velocità giusta (non avevo appositamente scelto alcun treno veloce). Avrei potuto guardare fuori tenendo il libro aperto sulle ginocchia o almeno socchiuso con l'indice che teneva il segno, cioè manteneva la pagina dove la lettura si era fermata.
Pyotr Alexandrovich Nilus (1869-1943) - At the Fountain
Sulla mia sinistra scorreva quindi il paesaggio della Versilia, della Lunigiana e della Liguria di Levante. Il profilo diritto del mare che brillava già della prossima estate (si era a fine maggio) e l'alternarsi di alberi, macchia mediterranea e case, villini e condomini che solo in parte nascondevano l'orizzonte aperto. Poi, le gallerie.

E infine, le stazioni con quel loro colore tendente al marroncino. Di un rugginoso profumo che si mischiava all'odore umano in tutti i sensi. Binari che da lucidi nel punto di contatto con le ruote del treno, si imbrunivano sempre più per finire agganciati da grossi bulloni bruno-rossicci alle grosse traversine. Prima di un legno bitumoso e nero, quasi pietrificato, e poi di un anonimo cemento.
Boris Kustodiev
Ecco, il profumo della ferrovia. Unico, impagabile perché misto al ricordo del significato che per noi aveva. Quello della vacanza, del viaggio verso qualcosa di diverso dal solito. Una sorta di avventura. Oggi, nelle stazioni ad alta velocità non si comprende più se si sia in metropolitana o all'aeroporto o cosa. Decisamente asettiche, funzionali e per questo anonime.

Come fai a distinguere una stazione di Bologna quando sei là sotto? Potrebbe essere dovunque. Anzi, la prima volta mi venne in mente l'aeroporto di Amsterdam che comunicava direttamente con il treno sotterraneo. Invece, la stazione di Bologna, arrivando con il treno normale, ti pone subito di fronte alla memoria di quel terribile 2 agosto 1980. E, se devi scendere, come mi è capitato per incontrare una persona, ti induce il dovere di andare a rendere omaggio alle vittime di quella lontana mattina.
Montserrat Gudio
Se invece, ti fermi appena, dal treno cerchi con lo sguardo quell'ala nuova della stazione. Quella parte che è stata ricostruita dopo la mutilazione e dove si trova l'enorme lapide che fa pensare, leggendola, a chi erano quelle persone che furono uccise dalla bomba. Persone come noi. Stessi nomi, stesse età, stessi pensieri, probabilmente si, comuni a tutti. La vacanza era vicina.

Ogni stazione ha poi una sua storia. Privata o pubblica. Ogni stazione ha il suo profumo e il suo colore. Gli oleandri in fiore, le piccole aiuole, i cipressi e gli orizzonti che le circondano. Per non parlare delle panchine. Chi in pietra (di granito, di solito) e chi in ferro battuto ma anche in legno dipinto di verde, come quelle dei parchi e dei giardini.
Zhang Yibo
Una volta, le aiuole erano curate. Tenute in ordine in genere dal capostazione stesso o dalla sua famiglia. Questo per le stazioncine della Liguria che ricordo succedersi, sopratutto a levante, a pochi chilometri di distanza le une dalle altre. Per quelle più grandi, le aiuole mancavano. Vedevi le banchine con il cemento a granaglia rossastra e la pietra anch'essa tendente al rosso dei bordi. Tra un binario e l'altro, piccole cabine di vetro e ferro pitturato di verde o grigio con da sedersi all'interno per ripararsi, d'inverno, dal freddo. Altrimenti, le panchine di pietra.

L'uscita dalle stazioni poteva avvenire attraverso la stazione stessa, passando dall'atrio dove c'era la biglietteria, oppure, nelle stazioni più piccole dai lati dell'edificio principale. C'era di solito un cancelletto che si apriva lungo il recinto (in genere con una cancellata di cemento stampato) e che ti lasciava vicino ai bagni o al deposito bagagli. Lì, spesso, c'erano le biciclette o i motorini di chi usava spesso il treno per andare e venire dal lavoro.
Mian Situ - Guangdong, formerly Canton
L'acqua delle stazioni era sempre poco raccomandabile. In genere campeggiava il cartello che non era potabile e che quindi, se avevi sete, dovevi andare al Bar a bere. I bagni erano anch'essi assai poco accessibili igienicamente ma, si sa, in certi momenti non bisogna essere troppo schizzinosi. Basta evitare di toccare troppo in giro, magari procurarsi prima la carta igienica o dei fazzoletti di carta e poi lasciare pulito.

Ricordo il sole. Ricordo la sensazione che dava il viaggio. Il primo contatto con la stazione e il treno erano le vacanze. Si viaggiava per quello. E anche il solo andare a trovare qualcuno aveva il senso della gita. Si usciva dalla città in cui si viveva e si andava verso l'avventura. Attaccavo il naso al finestrino e ne sentivo il profumo. Aspro, ferroso e osservavo i bordi che non erano mai puliti e conservavano anche loro un alone tendente al marroncino. Ogni parte della carrozza era in ferro e quando pioveva e pioveva, colava sempre un po' di ruggine che infiltrava la vernice, in genere di colore marrone scuro.
Alexei Antonov
Ricordo il colore e il profumo e la sensazione tattile delle mani di vernice. Sovrapposte le une alle altre nel corso delle periodiche manutenzioni. I bulloni, inizialmente accessibili, come anche nelle navi, venivano coperti dagli smalti e perdevano i loro lati acuti per diventare progressivamente sempre più lisci.

Al colore ed al profumo e al tatto avrei voluto aggiungere il gusto ma non mi sono mai permesso di farlo. Di fronte a quel profumo ferroso, aspro e caldo al tempo stesso. Di fonte a quell'odore antico ed amico, avrei voluto unire il sapore, assaggiandolo. Non l'ho mai fatto. Schizzinoso, pauroso di prendermi chissà cosa, ho solo immaginato che potesse avere un sapore altrettanto aspro. Come quando si mette in bocca un ferretto. Quasi pizzica.
Philip Barlow- South African artist
Ho fatto a tempo a vedere e ad usare le carrozze che, mi diceva la mamma, erano una volta quelle di terza classe. Avevano le porte, strette, che si aprivano tra una fila di sedili e l'altra. Non esisteva la zona per salire e scendere ad inizio e fine carrozza. Esistevano tante porticine che si aprivano lasciando intravedere le gambe delle persone sedute. Quando si doveva scendere si chiedeva permesso a loro perché si passava in mezzo e loro si facevano da parte, spostandole.

I finestrini erano anch'essi stretti e si abbassavano tirando verso il basso una maniglia in alluminio che era posta sulla parte alta del vetro. Esisteva una sorta di crimagliera ai lati con delle pinze che permettevano di regolare l'altezza del vetro e poi un fermo, alla base dello stesso, che consentiva di bloccare l'apertura. In basso, sul bordo del finestrino trovavi una traghettina in alluminio stampato che ammoniva in quattro lingue che non si dovevano gettare oggetti dal finestrino. Era il primo contatto con una lingua straniera scritta.
Meredith Frampton
E poi, le tendine. Grezze, ruvide, di un tessuto spesso e pesante. Di un colore sempre che rievocava il marrone. Forse a due o tre tinte. Si potevano fissare al bordo del finestrino con una fascetta anch'essa di tessuto e con un automatico ma spesso l'asola era sfilacciata e l'automatico non c'era più. Avevo l'abitudine di strofinare il viso su quelle tendine che svolazzavano al vento del finestrino aperto. Dovevi tenerle a posto con la testa e ne sentivi il profumo che questa volta era di polvere secca, antica. Fatta di vento e terriccio e polline che entrava dalle campagne che il treno attraversava.

Amavo, come amo ancora, arrivare presto. In anticipo sulla partenza del treno. Per fare con calma. Per potermi gustare la stazione, magari con un libro in mano da leggere in modo distratto e occasionale. Un momento di lettura e uno sguardo intorno. E il bello della coincidenza era proprio questo. Il tempo che ti veniva concesso per pensare, riflettere, leggere, osservare e conoscere meglio quella realtà che ti circondava.
Louis Anquetin - Portrait of a Woman - 1890
Una realtà che non era necessariamente quella consueta e che non avresti mai conosciuto se non vi fosse stata quella meravigliosa occasione. L'occasione data dalla coincidenza che ti chiedeva una pausa di tempo. Certo che si sbuffava perché desiderosi di ripartire ma, con il tempo, avrei capito il suo valore. Quello di stare con se stessi ad osservare il mondo. Lo spettacolo più bello di sempre.

Esiste un vechissimo film di Jacques Tati che inizia con la ripresa di una partenza in stazione. Con il travaglio dei villeggianti con valige e quant'altro si può portare in vacanza. Con la difficoltà del cambio di binario e dei sottopassaggi con le relative scale e poi con la salita sui predellini per entrare nelle carrozze. Per non parlare delle voci degli annunci che venivano trasmessi dagli altoparlanti.
George Clausen - Portrait of a Young Girl - 1884
Ricordo le voci delle persone. Saluti e raccomandazioni. Ricordo le scarpe di chi correva e di chi aspettava. Di chi saliva e di chi scendeva. Come una rappresentazione della vita. Belle e pulite e lustre, così come logore, sporche ed anche rotte. Screpolate ai bordi e con la pelle lisa sui fianchi. Dignitose ancorché usate e abbandonate ancorché quasi nuove. Come ognuno di noi. Dipende dal momento e dalla vita. Dipende da tante cose.

Ho negli occhi gli sguardi di chi aspetta e di chi si affaccia dai finestrini. Di chi cerca il binario e guarda l'orologio e di chi sorride all'arrivo, incrociando un viso amico. Di chi si abbandona sulla panchina e fuma la sigaretta e di chi chiede di accendere. Di chi si sorprende e di chi si arrabbia. Di chi si stringe ad un altro e si abbandona ad un bacio e di chi accarezza. Un universo che cammina, corre, si siede, mangia, parla, strepita, litiga, sorride e sputa e si affatica. Noti e ignoti.
Armin Hansen - Hazel Jenssen on the Beach - 1919
Ricordo le scene che derivavano dall'osservare lo spettacolo del mondo ed ecco che il viaggio in treno, per qualsiasi motivo, rappresenta anche oggi per me un'autentica gita nell'universo delle cose e delle persone. Uno spettacolo fatto di luci, figure, lampi, oscurità e profuni e odori e suoni. Indipendentemente dal motivo per cui mi trovo lì. Questo è il treno e non l'aereo e ancor meno l'automobile.

Soundtrack: Grails - The Burden of Hope

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